Un volontario dell’Arci di Piombino ha voluto informare i ragazzi del servizio civile sulla storia del carcere in Italia, soffermandosi soprattutto sull’esperianza personale vissuta tra i detenuti di Portoferraio. Abbiamo analizzato la differenza tra il termine “egoista” ed “altruista”. Secondo il dizionario italiano, egoista è colui che ha un esclusivo amore per se stesso e non tiene conto delle esigenze altrui; mentre altruista è colui che dimostra amore verso il prossimo ed ha una profonda disponibilità ad aiutare gli altri.

Una volta discusso il significato dei termini, ma soprattutto capito lo stato d’animo con cui si deve affrontare i detenuti del carcere, senza guardare le apparenze ma riconoscere che sono persone come noi, abbiamo introdotto l’evoluzione del carcere partendo dal milanese Cesare Beccaria. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 scrisse “Dei delitti e delle pene”, inizialmente anonimo, un saggio contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in Francia, dove incontrò l’apprezzamento entusiastico di molti filosofi che lo tradussero. Fu un vero e proprio capolavoro tanto che l’opera fu messa all’Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato. Per molti l’opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle Osservazioni sulla tortura e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile analitico appare però diverso da quello del Verri, che è più vivace, e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato germinò dal dibattito che animava la rivista Il Caffè, di cui i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.

Il primo stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte per tutti i reati fu il Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 con l’emanazione del nuovo codice penale toscano (Riforma criminale toscana o Leopoldina, preparata dal giurista Pompeo Neri alcuni anni prima) firmato dal granduca Pietro Leopoldo (divenuto poi Leopoldo II del Sacro Romano Impero), influenzato dalle idee di pensatori come Cesare Beccaria, già citato precedentemente; tale giornata è festa regionale in Toscana. Leopoldo, granduca di Toscana, così scriveva: “Abbiamo liberato l’Italia dal termine “pena di morte”. Non è stato facile: il percorso è stato lungo, accidentato e irto di ostacoli”.

Nel 1859 si formarono i primi governi provvisori che sfoceranno l’anno successivo nell’ Unità d’Italia; dalla stamperia governativa di Firenze, a firma del cavaliere Ubaldino Peruzzi, dell’avvocato Malenchini e maggiore Danzini escono le copie di un decreto del governo provvisorio toscano sull’abolizione della pena di morte.

Considerando però che quiantunque per tal modo ripristinata non venne applicata giammai perchè fra noi la civiltà fu sempre più forte della scure del carnefice.

Ha decretato e decreta, articolo unico. La pena di morte e’ abolita.”

La pena di morte in Italia, tranne che per il regicidio, l’alto tradimento e delitti commessi in tempo di guerra, fu abolita la prima volta durante il Regno d’Italia, nel 1889, nel codice penale opera del ministro liberale Giuseppe Zanardelli. Fu reintrodotta dal regime fascista con il codice Rocco nel 1930, poi abolita nel 1944 e ripristinata l’anno seguente; con l’avvento della Repubblica (1946) è stata espressamente vietata dalla costituzione del 1948, tranne i casi previsti da leggi di guerra. Solo nel 1994 e precisamente il 25 ottobre, per effetto della legge n. 589/1984, è stata abolita completamente anche nel Codice Penale Militare di Guerra e sostituita dalla pena massima prevista dall’ordinamento, ovvero l’ergastolo. L’ultima esecuzione è avvenuta a Torino nel 1947; in essa vennero fucilati tre uomini colpevoli della strage di Villarbasse.

Nel 2007 è stata completamente espunta la pena di morte dalla Costituzione anche con riferimento alle leggi militari di guerra (per effetto della Legge Costituzionale, 2 ottobre 2007, n. 1: “Modifica all’articolo 27 della Costituzione, concernente l’abolizione della pena di morte”). L’Art.27 della Costituzione afferma che la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [cfr. art. 13 c. 4]. Non è ammessa la pena di morte.

La grande riforma penitenziaria del 1975 segna una storica svolta, almeno dal punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul penitenziario, poiché sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931. Quest’ultimo si ispirava ad una filosofia di applicazione della pena che aveva caratterizzato la normativa in materia sin dall’Unità di Italia, e che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Fino a quel momento il carcere era stato concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera. L’isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna – limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni. Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad opera di persone estranee all’amministrazione, riservata solo ad un elenco tassativo di personalità.

Oggi si parla di rieducazione intesa come piena realizzazione di se stesso all’interno della società e delle norme sociali che la regola, è sempre un percorso intenzionale, responsabile, il cui scopo è la promozione totale dell’uomo.

Le misure alternative alla detenzione sono l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e l’esecuzione della pena in regime di semilibertà. Tali misure costituiscono un beneficio riconosciuto ai condannati che, in presenza di determinati requisiti, ne appaiano meritevoli, pertanto qualora ne vengano meno i presupposti, le stesse misure possono essere revocate. In ogni caso, competente a decidere circa la concessione o revoca delle predette misure è il Tribunale di Sorveglianza del luogo in cui la pena viene eseguita.

L’iter procedimentale penale, ispirato ai principi del sistema accusatorio, si impernia sulla distinzione tra la fase delle indagini preliminari, di cui è dominus il Pubblico Ministero, e la fase del processo, celebrato innanzi ad un giudice nel contraddittorio tra RM. ed imputato. Nell’ambito del procedimento penale occorre poi distinguere i diversi gradi. Gradi sono gli stadi del processo indicanti la successione dei giudizi. Il numero dei gradi varia a seconda del tipo di giudizio. Così il giudizio di cognizione si articola in tre gradi: il primo grado, l’appello e il ricorso per Cassazione. Le fasi del procedimento sono gli stadi interni a ciascun grado di giudizio.

In particolare, di norma, nel giudizio di primo grado è possibile dividere le seguenti fasi:

— indagini preliminari;

— udienza preliminare innanzi al G.I.P.;

— giudizio dibattimentale.

Alternativamente, la sequela su esposta può presentare abbreviazioni o semplificazioni attraverso l’adozione del giudizio abbreviato e del patteggiamento della pena, che rendono inutile l’udienza dibattimentale, ovvero attraverso il giudizio immediato e quello direttissimo, che evitano l’udienza preliminare o, infine, mediante il procedimento per decreto penale di condanna, che evita sia l’udienza preliminare che quella dibattimentale. Non è contemplata l’udienza preliminare in pretura.

L’appello e il ricorso per Cassazione costituiscono i mezzi ordinari di gravame e si risolvono, di norma, in una udienza dibattimentale pubblica o in camera di consiglio. Mezzo straordinario di impugnazione, perché eccezionalmente previsto per le sentenze già irrevocabili, è la revisione. Il procedimento di esecuzione che mira all’esecuzione della pretesa punitiva già accertata nel processo di cognizione, si articola nel procedimento di primo grado innanzi al c.d. giudice dell’esecuzione e nel procedimento di cassazione.

L’Arci come associazione indipendente di promozione sociale e civile cerca di promuovere il diritto alla cultura, il libero accesso alle conoscenze, la circolazione delle idee e dei saperi, le diversità culturali ache tra i detenuti del carcere di Portoferraio.


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